Dopo la menzione speciale, eccoci a parlare del premio speciale della giuria del Concorso Internazionale assegnato ad una delle pellicole che sono state da subito tra le più apprezzate e viste, al punto da convincere l’organizzazione ad aggiungere proiezioni supplementari sino al giorno della premiazione. Si presenta infatti come una storia girata a Tel Aviv, su Israele, sugli Israeliani, sui loro problemi. E qui viene il bello: se state pensando al conflitto israelo-palestinese e/o all’Olocausto, siete davvero fuori strada!

Il regista Nadav Lapid appartiene ad una nuova generazione, dice chiaramente di aver voluto fare un’opera che parlasse della sua gente, ed in generale della sua cultura, ma che l’intento era di essere globale, di creare un film che che trattasse di problematiche comuni a molti, così che l’identificazione fosse possibile. Come dargli torto? Oggigiorno i conflitti di classe sono più che mai sentiti, soprattutto con la crisi economica che sta imponendosi sempre di più a livello planetario, il concetto ed il valore della famiglia si sta evolvendo, la figura dell’uomo ed il machismo sono ben più diffusi di quanto si vorrebbe far credere. Quindi un film che ruota intorno al rapimento di personaggi noti nel mondo della finanza ed alle vite di rapitori e di chi li libererà, attira facilmente la nostra attenzione.

Hashoter è prima di tutto una storia umana che tratta di esseri umani ingabbiati in sé stessi, nel proprio corpo, nella propria vita, in ciò che la famiglie da un lato e la società dall’altro si aspettano da loro. E poi c’è la realtà, le lotte di potere, i conflitti di classe, il concetto di oppressi ed oppressori che è vecchio come il mondo ed ancora non ne siamo venuti a capo. Qui seguiamo le gesta di un poliziotto, Yaron, anzi di un super-poliziotto appartenente ad una squadra d’assalto antiterrorismo, un uomo che deve essere forte dentro e fuori, perché così impone il suo ruolo. Tutto ciò che appare normale all’inizio, con lo scorrere della pellicola si sgretolerà, il supereroe perderà il mantello ed emergerà tutta la sua tanto debole quanto normale umanità. E ci piace un sacco! Se la prima parte si apre con un’inquadratura sul fisico scolpito di quest’uomo e sulla sua espressione compiaciuta, per poi spostarsi sul cameratismo con il resto della squadra, sul machismo accettato ed alimentato, sulla famiglia e la figura della femmina, l’opera si conclude con il disperato tentativo di un padre di salvare il figlio e con frasi di timore e sguardi spaesati di colui che ha “risolto” la situazione.

D’altra parte si sa, quando le certezze interiori crollano, il disastro è in agguato. Lapid non ci mostra le conseguenze, ha già fatto abbastanza. Ci lascia con la speranza che esista una remota possibilità di salvarci dal nostro destino.  Questo è un film che coraggiosamente riesce ad andare ben oltre i confini nazionali ed al contempo mostra un lato di Israele sul quale raramente ci si sofferma: la divisione esistente tra gli stessi ebrei che, a quanto sembra, è ben più profonda di altre. L’istintiva reazione violenta che si ha nei confronti de “l’altro”, dell’aggressore, emerge identica anche quando si “combatte” contro sé stessi. Condivisibile quindi la decisione della Giuria del Festival di Locarno e ora rimarremo in attesa delle reazioni probabilmente forti (sia in un senso sia nell’altro) in quella patria dove, nonostante la pellicola abbia vinto il Jerusalem Film Festival, non è ancora stata distribuita nelle sale. Dubitiamo invece che da noi sarà mai disponibile.