Wes Andersen ci ha oramai abituati a carpirci risate con opere maniacalmente attente ai particolari e dal sottofondo amaro. Sapienti analisi di rapporti familiari sbilanciati, in cui il pater familias influenza in modo preponderante i comportamenti dei protagonisti della pellicola di turno, il tutto (possibilmente) con una gran colonna sonora ed una fotografia talmente accesa e colorata da rendere difficile una collocazione temporale della storia. Regista di pellicole sempre più senza tempo, ai confini con il fantasy, briose che a volte scivolano nell’inverosimile.

Se i Tannenbaum vi erano piaciuti e ancora vi ostinate a vedere le prodezze di Wes Andersen, probabilmente siete intrappolati nel mio stesso circolo vizioso: inesorabilmente stregati dalla sua produzione giovanile, non sapete più come staccarvi nonostante, pur attingendo a tutta la benevolenza immaginabile ed all’oggettività possibile, ogni nuova opera di questo regista se da un lato mostra evidenti segni di crescita, d’altro canto però provoca un allontanamento sempre maggiore dei più per crescenti difficoltà di comprensione della sua prospettiva. Personalmente, inizio a faticare a seguire il ritmo (sempre più lento) delle pellicole e non condivido l’uso di sceneggiature che paiono talmente aperte da lasciare alle abilità del cast la libertà (o forse dovremmo dire l’onere) di reggere la storia sulle proprie spalle. Qui, nonostante tutto sia più semplice dato che Andersen si è avvalso del suoi amici di una vita, insomma del solito cast (Owen Wilson, Adrien Brody, Jason Schwartzman, Anjelica Huston con pure una bella comparsata di Bill Murray), a tratti sorgono dubbi sulla necessità del film stesso.

“In treno per Darjeeling” si svolge realmente su un treno, peraltro coloratissimo e dai dettagli molto “etnici”, che attraversa l’India con a bordo tre fratelli alla ricerca della madre, sparita dalla circolazione per ritrovare la giusta dimensione indossando le vesti monastiche. Jason, Peter e Francis si ricongiungono dopo un anno lontano gli uni dagli altri in occasione di questo viaggio il cui vero scopo, oltre al ritrovare la madre,  è rinsaldare il legame che li ha sempre uniti e, sopratutto, fare in conti con sé stessi. Metafora quindi dell’esistenza di molti di noi, il treno sgangherato, ma folkloristico, è assimilabile alla vita talvolta fuori fuoco di molti di noi.

Film definito da molti come un road movie pittoresco e grottesco su tre allampanati fratelli che attraversano un’India dalla connotazione talvolta ai confini del drammatico, premiato a Venezia nel 2008 che, nonostante le migliori intenzioni, a me è parso debole ed ai limiti del controproducente. Se da un  lato, infatti, si esplorano nuovi personaggi la cui vita e soprattutto i cui fallimenti sono stati segnati da figure genitoriali imponenti e vi sia totale assenza di violenza o anche solo di antagonisti, c’è però  molta (ahimè) troppa bizzarria. Andersen inizia ad essere talmente sopra le righe da rendere le sue opere difficili da seguire e condividere:  sono confuse, noiose e al limite del soporifero. Posso quindi solo sperare che non mi parta per la tangente come Malick, perchè la sua idea di fondo è condivisibile e mirabile… basterebbe solo qualche aggiustamento