Le danze della giornata di chiusura della tredicesima edizione del Far East Film Festival si son aperte con un inconsueto thriller made in Thailand. Il regista ha voluto introdurre personalmente la sua opera sfoggiando un perfetto inglese (e dal cognome abbiamo compreso al volo il perché :-) ). Nonostante ai nostri occhi sembri giovane, sebbene frequenti l’industry da una decade in qualità di produttore, e questo sia il suo primo tentativo dietro la macchina da presa, il suo polso ci pare già molto deciso e coerente. Insomma, un cineasta decisamente promettente. Sin dalle prime inquadrature infatti si percepisce una attenzione al dettaglio ed alla fotografia poco comuni in opere di esordienti seppur talentuosi.

Avvolti dall’abbraccio di una luce soffusa coi toni caldi della terra, ci ritroviamo all’interno di un monastero buddista in cui vengono ospitati, a fianco dei religiosi, giovani derelitti, persone che hanno smarrito il cammino per vari motivi e chi (come il nostro protagonista) ha deciso di ritirarsi dalla vita comune. Un ex poliziotto dovrà osservare, investigare e risolvere l’apparentemente insensato omicidio di un giovane ospite senzatetto, supplendo al dichiarato disinteresse della polizia locale. Dalle indagini interne, emergeranno sorprendenti retroscena fatti di intrighi di potere, abusi, droga e sesso. Ritmo in crescendo, atmosfera sempre più soffocante ed umida, sino a farci quasi percepire l’odore di piante e terra, e suspense alta (ma non da cardiopalma) per una pellicola recitata per la maggior parte da attori non professionisti. L’unico del settore è proprio il protagonista, Vithaya Pansringarm, noto sia in patria sia all’estero prima di tutto per le sue abilità di interprete, che a breve dovremmo veder comparire nel colosso americano “Una Notte da Leoni 2”.

Vale la pena soffermarsi sul fatto che siamo di fronte ad uno dei pochi film che affronta temi quali corruzione, il traffico di droga e l’omosessualità negli ambienti religiosi di un Paese in cui ancora oggi questi son considerati tabù. Tom Waller ci mostra una realtà decadente, un mondo popolato di uomini che per loro natura son deboli e corruttibili anche quando armati delle migliori intenzioni. Così facendo, avvicina molto il proprio Paese al resto del globo. È un tentativo,  oltre che ben riuscito, in primis coraggioso, che è stato possibile girare e soprattutto proiettare  in patria solo grazie ad una nuova recente legge. Non stupisce quindi che il regista viva ad Hong Kong, la troupe sia per lo più straniera ed il direttore della fotografia addirittura australiano. La speranza è che questo sia solo l’inizio.

Pare che in molti abbiano avvicinato quest’opera al “Nome della Rosa”, complice l’ambiente religioso in cui si svolgono i fatti e la figura del protagonista monaco-indagatore. È lo stesso autore, durante l’intervista rilasciata al Festival, a dipanare il dubbio confermando che il colossal diretto da Jean-Jacques Annaud tratto dal testo del nostro Umberto Eco è stato grande fonte di ispirazione. Mi domando però se sia stato girato il medesimo quesito all’autore (Nick Wilgus) delle storie di “Father Ananda”, testo alla base dell’opera di  Waller.  Di certo l’analisi del bene e del male che emerge da questa visione/versione orientale ci pare delicata, chiara e diretta ma poco accusatoria, molto incline al perdono. Una matrice che  si avvicina a quella nostrana… :)