Solito (malcelato) orgoglio nella presentazione di una nuova recensione cinematografica di V. E’ la volta di “I love Radio Rock”. La recensione è qui sotto, le (fastidiose) note in corsivo sono le mie glosse.

135 minuti di vera musica, coinvolgente, che ti fa venir voglia di ballare, quella che ha fatto la storia del rock e  che tutti abbiamo sentito, ma probabilmente non abbiamo in casa. Così  durante il finale del film, quando annegano migliaia di copertine, si viene assaliti da stato ansiogeno per tutto ciò che (per qualche strano motivo che non riusciamo più a ricordare) non possediamo e da domani vorremmo veder comparire nella nostra collezione.

Curioso… hai descritto perfettamente la sensazione che mi ha preso quando mi hai fatto vedere la tua collezione di CD, e/o l’occupazione di spazio sui tuoi hard disk. Spieghiamoci: condivido l’idea di musicoterapia e sono convinto che si tratti di una delle forme di arte e comunicazione più importanti della storia del pianeta. Ma sono cresciuto a chitarre e cantautori italiani, e quando comprendo di non conoscere, beh, un po’ di ansia mi prende.

Questo è il primo pensiero all’uscita del cinema, che mi porta ad esprimere grande apprezzamento verso i doppiatori che hanno preservato il vero pezzo forte del film: il rock. Ad onor del vero infatti i dialoghi son pochini, ma il tempo scorre ritmato dalle onde del mare e da grande musica e viene coronato da inaspettata fotografia pastellata che da quel non so che di retrò.
Pellicola che – ahimè ammettiamolo – è sprovvista di screenplay protagonista, per fortuna però è ben nutrita di attori dalla presenza scenica prepotente quali Rhys Ifans (qui impagabile seduttore radiofonico), Bill Nighy, Philip Seymour Hoffman (come sempre carismatico e così … americano!) e Kenneth Branagh (calato in personaggio vittoriano veramente antipatico) che – probabilmente supportati dal divertimento – hanno da soli creato una storia spumeggiante.

Sorge quindi il dubbio che l’assenza di trama articolata fosse voluta per lasciare che protagonista indiscussa fosse la musica e che lo spettatore potesse così solo dedicarsi ad essa.

Esattamente quello che cerco in un racconto a caldo su un film: lo stimolo alla curiosità ed il racconto di emozioni, più che di trame o azione. E non conta che qui lo screenplay fosse un filo sottotono: conta quello che è passato dallo schermo al cervello, e da lì a questo spazio.

PS qualcuno mi sa però spiegare quale necessità vi fosse di modificare il titolo originale da The boat that rocked  in I love radio rock???

Temo, fortissimamente temo: nessuna. Ma ho appena appuntato sulla lavagnetta di studiarmi un po’ di atroci traduzioni di titoli di libri o pellicole : - )